E non se ne vuole andare

Vincenzo Figlioli

Marsala

E non se ne vuole andare

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sabato 14 Aprile 2018 - 06:30

Tra 8 giorni esatti ricorre l’ottavo anniversario del giorno in cui si è ufficialmente concluso il berlusconismo politico: era il 22 aprile del 2010 quando, nel corso di una direzione nazionale del Pdl, si consumava lo strappo definitivo tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Tutto ciò che è arrivato dopo, fa parte dell’incapacità del fondatore di Forza Italia di accettare che il suo tempo è finito e che è arrivato il momento di lasciare spazio ad altre figure del suo schieramento politico. Le immagini dell’ex presidente della Camera che di fronte agli ultimatum del suo leader replica con un plateale “Che fai, mi cacci?”, sono ancora impresse nei ricordi di molti osservatori della politica. Quel giorno, di fatto, per Fini si infranse il sogno di guidare il centrodestra italiano e cominciarono le inchieste giudiziarie e le campagne stampa sulla casa di Montecarlo e le imprese della famiglia Tulliani che di fatto azzerarono agli occhi degli italiani la credibilità dell’ex pupillo di Giorgio Almirante.

Contestualmente, troppo impegnato a consumare la sua vendetta, Berlusconi non si accorse che quel 22 aprile il suo progetto smise di essere maggioritario nel Paese. Superò a dicembre un voto di fiducia che sembrava dovesse far cadere il governo, ma dopo meno di un anno la sua maggioranza ormai risicata non resse di fronte alla crisi determinata dall’isolamento dei leader europei e dall’offensiva dei mercati. Da allora, Berlusconi non ha più pensato di poter vincere le elezioni, dedicando tutto il suo impegno a non far vincere gli altri. O comunque a fare in modo, pur da una posizione defilata e minoritaria, di poter ancora influire sulla formazione di maggioranze trasversali o di governi di larghe intese. Nel frattempo è arrivata anche la condanna per truffa scontata ai servizi sociali, l’interdizione dai pubblici uffici e l’incandidabilità per effetto della legge Severino, fino al 2019.

In qualsiasi altro Paese europeo, uno nella sua posizione si sarebbe fatto da parte, pensando a godersi i nipotini in una delle sue ville. Ma Berlusconi ama talmente il potere da trovare insopportabile l’idea che possa essere gestito da altri, senza poter in alcun modo interferire. E, soprattutto, ha i suoi interessi da tutelare. Gli stessi che lo convinsero a scendere in campo dopo la caduta della Prima Repubblica. Così, a ridosso dell’ultima campagna elettorale, ha colonizzato per mesi le tv italiane per promuovere Forza Italia pur non essendo candidato; si è presentato davanti a Mattarella per dire la sua sulla formazione del nuovo governo e ha fatto fare a Matteo Salvini la figura del ragazzino bisognoso di un tutore legale, mettendo in scena una performance più adeguata a Zelig che a un palazzo istituzionale, mentre il resto del mondo vive con angoscia il possibile inizio di una nuova guerra in Medio Oriente.

Berlusconi non è l’unico problema dell’Italia, ci mancherebbe. Ma il giorno in cui si farà davvero da parte si potrà cominciare a scrivere una pagina nuova nella storia di questo Paese. Per liberarci del berlusconismo da un punto di vista culturale servirà invece molto più tempo. Ed è questa, a ben vedere, una delle più grandi iatture che l’uomo di Arcore ci lascia in eredità.

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