Il caso Genovese e la selezione della classe dirigente

Vincenzo Figlioli

Marsala

Il caso Genovese e la selezione della classe dirigente

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martedì 14 Febbraio 2017 - 07:25

Nel corso della mia attività giornalistica mi sono ritrovato spesso a riflettere sulla qualità del consenso in questa regione. Nei miei primi articoli della mia carriera giornalistica mi è capitato di scrivere ripetutamente sulla Sicilia del 61 a 0, su Cuffaro, Raffaele Lombardo e i loro epigoni di provincia, che con disinvoltura incarnavano un certo tipo di politica, in cui il voto di scambio era una sorta di prassi legalizzata. Non intendiamo qui il voto di scambio secondo una prospettiva rigorosamente penale, ma secondo una logica più ampia, in cui il candidato di turno, pur non dando nulla di materiale ai suoi elettori, lascia intendere che se vince, i suoi amici vinceranno con lui. C’è chi sperava in una promozione, chi in un trasferimento, chi ancora in un impiego per il figlio, o una consulenza, o un posto di sottogoverno. Ma bastava anche una semplice sanatoria per una villetta abusiva, una concessione per allargare un chiosco o un contributo per l’organizzazione del Capodanno in piazza. Non era importante l’immediato soddisfazione dell’auspicio, bastava dare l’impressione di averlo preso in carico e di poterlo trasformare in realtà nel momento in cui ci fossero state le condizioni.

Quel tipo di politica, ormai è al canto del cigno. Perchè la crisi economica è molto più profonda di quanto raccontino le statistiche e i telegiornali. E la gente ha perso fiducia e non ha più voglia di aspettare. Di fronte a tutto ciò, una classe politica lungimirante comprenderebbe che il tempo dei privilegi e degli eccessi è finito e che l’austerity non può essere chiesta solo ai cittadini. Ma come abbiamo scritto più volte, la nostra classe dirigente è tutto meno che lungimirante: l’ennesima dimostrazione è arrivata in questi giorni a proposito di Francantonio Genovese, per anni ras delle preferenze nel messinese e recentemente condannato a 11 anni di reclusione per truffa. Secondo la prima sezione del Tribunale di Messina, Genovese era a capo di un’associazione a delinquere (formata anche dal cognato e dalle rispettive mogli) che aveva drenato 60 milioni di euro dalla Regione nel settore della formazione professionale. Adesso, però, il Tribunale del Riesame ha revocato la misura dell’obbligo di dimora. Per cui Genovese potrà tornare in Parlamento, visto che la legge Severino vale per i sindaci e i consiglieri comunali e regionali, ma non per deputati o senatori. Non si siederà tra i banchi del partito con cui era stato eletto (il Pd) visto che i colleghi votarono a favore del suo arresto. Andrà ad accomodarsi con i deputati di Forza Italia, che immaginiamo pronti ad accogliere Genovese come l’ennesima vittima del sistema giudiziario, dicendosi certi che in Appello o in Cassazione le cose andranno diversamente.

Tutto ciò, naturalmente, dimenticando per l’ennesima volta che la selezione della classe dirigente non dovrebbe avvenire sulla base delle sentenze, ma di valutazioni politiche che comprendano una capacità di osservazione e valutazione un po’ più ampia. Che passa, per esempio, dal racconto di coloro che sono stati vittime della truffa allestita dalla “cricca” di Genovese nel campo della formazione. Da un lato c’è chi ha lavorato senza ricevere i compensi pattuiti (e questo, purtroppo, è accaduto anche in altri enti dello stesso settore) e dall’altro chi si è messo i soldi in tasca approfittando della propria posizione. Fino a quando la politica starà dalla parte dei truffatori e non dei truffati, i cosiddetti “partiti antisistema” avranno il futuro assicurato e sarà da ingenui sorprendersi per le loro vittorie.

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