La crisi del Pd

Vincenzo Figlioli

Marsala

La crisi del Pd

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martedì 21 Febbraio 2017 - 06:26

A dieci anni dalla sua nascita, il Pd sembra entrato in un processo di disgregazione pressochè irreversibile. Non è ancora chiaro come finirà la contesa tra le varie anime del partito. Quel che appare certo è il naufragio in atto delle premesse che avevano caratterizzato la genesi di questo soggetto politico che nel 2007, dopo un lungo dibattito preliminare, si poneva l’obiettivo di riunire le grandi famiglie del cattolicesimo democratico e del socialismo europeo. Per riuscirci andava superata la logica che ha visto (e continua a vedere) gran parte dei dirigenti del Pd pensare a se stessi come ex Ds o ex Margherita. Dieci anni dopo, viene da pensare che quella sfida sia stata clamorosamente perduta e che le divisioni siano prevalse sulla disponibilità a fondersi in un contenitore comune. Paradossalmente, i principali sostenitori di quel progetto – Romano Prodi e Walter Veltroni – ne sono finiti presto ai margini, mentre altri che non ne sembravano entusiasti sono ancora lì, a cercare di dare le carte agli altri. E’ vero, nei territori ha cominciato a muovere i primi passi anche una nuova classe dirigente, potenzialmente in grado di guidare un doveroso ricambio generazionale. Ma, come si è visto in queste settimane, i rancori e le antipatie personali hanno superato qualsiasi progettualità: da un lato Bersani, D’Alema e i loro sodali ritengono Renzi una sorta di usurpatore (al di là della vittoria delle primarie); dall’altro lato, il segretario uscente ha preferito isolarsi con il suo “cerchio magico” perdendo per strada tanti coetanei (Civati, Fassina, lo stesso Speranza) con cui per affinità generazionale avrebbe potuto condurre battaglie comuni.

Il naufragio del progetto originario del Pd è destinato nelle prossime settimane a ridisegnare il quadro politico italiano. Tuttavia, al di là delle contese personalistiche, lontane anni luce dall’agenda setting dell’elettorato, la crisi del Pd si inserisce in un discorso più ampio, che coinvolge tutti i partiti della sinistra europea. Rispetto a dieci anni fa sono venute meno tante presunte certezze e i riformisti del continente non sono stati capaci di aggiornare le loro ricette di politica economica ai nuovi scenari determinati dalla crisi. I più moderati hanno continuato a scimmiottare i modelli liberisti (con qualche spruzzatina di welfare) che tanto andavano di moda negli anni ’90 quando il riferimento era il premier inglese Tony Blair. I più radicali sono invece rimasti fermi agli anni ’70, sia nelle parole che nei contenuti. L’incapacità di leggere il presente, di immedesimarsi nei problemi della gente comune, di guardare al lavoro, all’ambiente, ai servizi sociali e alle periferie con occhi diversi e di immaginare qualcosa che somigli anche vagamente a un’idea di futuro, restano dunque i reali nodi che i partiti di sinistra dovranno sciogliere se sono interessati a governare i processi che ci attendono nei prossimi anni. Viceversa, sono destinati a finire nel limbo dell’irrilevanza e ad assistere all’affermazione di quelle forze che contestando il sistema da posizioni eterogenee (come il M5S) o da destra (come il Front National in Francia) mostrano quantomeno la capacità di guardare al di là del proprio ombelico.

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