La lezione della Brexit

Vincenzo Figlioli

Apertura

La lezione della Brexit

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sabato 25 Giugno 2016 - 07:00

Appartengo a una generazione cresciuta con il mito dell’Europa. A scuola, quando ci parlavano del manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, ci facevano immaginare una sorta di magnifica utopia in cui i principali Paesi del continente si sarebbero presto federati in un nuovo soggetto capace di superare divisioni e nazionalismi. Noi ragazzini che qui in Sicilia avevamo subito lo shock dei missili di Gheddafi su Lampedusa e sentivamo ancora i nostri nonni raccontare le rovine del Secondo Conflitto Mondiale e le tensioni della Guerra Fredda, immaginavamo che con l’Europa unita sarebbe cominciata una nuova felice stagione, nel segno della pace e della prosperità. Una convinzione alimentata anche dai programmi che la Rai mandava in onda in quegli anni in prima serata – “Europa, Europa”, “Giochi senza frontiere”, “Club ’92” – per stimolare lo spirito di appartenenza continentale. Non si parlava ancora di “quote latte” o “quote tonno” e la parola “tecnocrazia” era lontana anni luce dai dibattiti televisivi.

Di quell’idea di Europa, purtroppo, si è realizzato molto meno di quello che ci saremmo attesi. Abbiamo visto guerre scoppiare a due passi da casa nostra senza che le diplomazie del continente siano state capaci di trovare una politica comune. Abbiamo visto pochi Paesi arrogarsi il diritto di decidere per tutti gli altri. Abbiamo visto i partiti italiani riempire di attori, cantanti e starlette le proprie liste per le elezioni europee come non avrebbero fatto nemmeno per quelle di quartiere. Abbiamo visto le nostre tasche improvvisamente più vuote a causa di chi non ha saputo (o voluto) vigilare sulla transizione tra la moneta nazionale e l’euro. Abbiamo visto andare in fumo, soprattutto in Sicilia, milioni e milioni di finanziamenti destinati alle regioni depresse. Abbiamo visto un Paese come la Grecia, la cui storia e la cui cultura costituisce l’asse portante dell’identità europea, trattata come un vecchio rottame di cui disfarsi.

Adesso ci tocca anche assistere alla Brexit, che priva l’Unione Europea di un Paese che parla la lingua che fin da bambini ci dicevamo che avremmo dovuto imparare per sentirci, appunto, più europei. Il Paese di Shakespeare, Dickens, Wilde, Beckett, Orwell. Quello in cui sono nati il calcio, il rock, il punk e dove trova origine gran parte del nostro immaginario collettivo. L’Inghilterra è sempre stata isolazionista nelle sue componenti più tradizionaliste, tanto da decidere di restar fuori fin dall’inizio dall’Unione monetaria. Con l’esito di questo referendum, però, sceglie in maniera definitiva una strada che la allontana forse irrimediabilmente dall’Europa. Ma in questo momento non dovrebbe essere solo il premier Cameron a sentirsi sconfitto e a dimettersi. Ha perso tutta la classe dirigente che ha guidato l’Unione in questi anni, trasformando la magnifica utopia che ci ammaliava da ragazzini in un progetto completamente privo di fascino.

Si fa sempre in tempo a recuperare, per carità. Ma l’impressione è che a nessuno interessi davvero cambiare rotta e che quanto accaduto con Brexit possa scatenare un pericoloso effetto domino in altri Paesi, fino a smontare, pezzo dopo pezzo, quanto faticosamente costruito dalle classi dirigenti del Dopoguerra.

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