La Sicilia, il futuro e il lavoro che non c’è

Vincenzo Figlioli

Apertura

La Sicilia, il futuro e il lavoro che non c’è

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giovedì 04 Febbraio 2016 - 06:34

“La Sicilia è bella. Ma ce ne andiamo perché non c’è lavoro”. E’ questa la risposta che la maggior parte dei giovani dà a chi gli chiede se vedono un futuro nella loro terra. “Abbiamo tante potenzialità, ma non sappiamo valorizzarle”, aggiungono i più loquaci. Difficile trovare risposte in controtendenza di questi tempi. E, del resto, l’ultimo Rapporto Svimez non lascia spazio a dubbi: nel 2015 sono stati più di 20.000 i siciliani che si sono trasferiti al Nord Italia o all’estero. Un dato che conferma la sensazione di trovarsi in una situazione di stallo, in cui la Sicilia non è più il regno del posto fisso, ma non è nemmeno la terra delle iniziative individuali o delle start up. Da un lato, le logiche clientelari degli anni ’80 hanno creato strutture pubbliche ipertrofiche, caricate di personale ben oltre il necessario, senza peraltro produrre risultati apprezzabili per gli utenti. Contestualmente, le generazioni successive si sono ritrovate sbarrate gran parte delle opportunità di cui hanno potuto godere i propri genitori. E allora, si sono illuse di poter investire sulle proprie competenze aprendo partite iva o avviando start up: ad alcuni è andata bene, altri si sono schiantati su quel “mostro a sette teste” che prende il nome di burocrazia siciliana, specializzato nel rendere sempre più complicato del necessario qualsiasi tentativo di innovazione. Lo stesso “mostro” che ogni anno si distingue per la capacità di far andare perduti la maggior parte dei fondi comunitari che potrebbero sostenere iniziative meritevoli e che spesso vanno a finire nelle tasche delle organizzazioni criminali. E’ quindi comprensibile l’atteggiamento di chi vede nell’emigrazione l’unico strumento per realizzare i propri progetti? In parte sì, in parte no. Perché, spesso, chi decide di fare fagotto e andare altrove non ha speso nemmeno un decimo delle proprie energie per cambiare le cose. Come scriviamo da tempo, dalla Sicilia non dovrebbero andar via le persone che potrebbero salvarla, ma quelli che l’hanno rovinata. Perché qui il lavoro potremmo venderlo in giro per il mondo, applicando logiche e principi innovativi all’agricoltura, ai beni culturali, al turismo, all’ambiente, all’enogastronomia. Chiaramente, servirebbe anche un investimento serio sui servizi, i collegamenti, le nuove tecnologie. Se saremo capaci di ottenere un cambio di passo da parte dei politici, amministratori e burocrati, avremo la possibilità di pensare al futuro di questa terra con parole nuove. Viceversa, resteremo confinati nella logica del rimpianto e continueremo il nostro naufragio pubblicando qualche selfie consolatorio che ci ritrae davanti a un tramonto o a un piatto di cous cous.

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