Le maschere di Magnato in “L’uomo, la bestia e la virtù”: quando la commedia è attuale

redazione

Le maschere di Magnato in “L’uomo, la bestia e la virtù”: quando la commedia è attuale

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martedì 19 Febbraio 2019 - 07:30

Quanto mancava la farsesca tragicità, la maestria di Giorgio Magnato ai teatri marsalesi. Un’importante apertura nei confronti di un grande regista ed attore figlio della nostra terra, che con la sua “Lilybaeum” ha girato il mondo strappando applausi. Domenica il Teatro Comunale “Eliodoro Sollima” lo ha accolto registrando un sold out per una nobile finalità: il Lions Club di Marsala ha “regalato” al pubblico uno spettacolo solidale per l’acquisto di un cane per ciechi. Magnato ha magistralmente diretto la sua Compagnia d’Arte Drammatica e la Teatron dell’attore Salvo Ciaramidaro in “L’uomo, la bestia e la virtù” commedia tratta dal “Richiamo all’obbligo” di Luigi Pirandello.

Il regista evidenzia la “farsa tragica” dietro le maschere pirandelliane, un ossimoro di quel “sentimento del contrario” che segna le opere dello scrittore agrigentino, come contrasto alle regole, alle abitudini. Sebbene sia una commedia scritta nel primo ventennio del 1900, Magnato riesce a renderla attuale senza mai scadere nel volgare, anzi è sottile, pungente, sferzante. In scena il professor Paolino (Giorgio Magnato) precettore del piccolo Nonò (Sara Di Prima), figlio della signora Perella (Eugenia Giacone) e di suo marito il Capitano (Salvo Ciaramidaro). La donna, che non ha più amor proprio visto il continuo tradimento del marito in quel di Napoli – dove ha un’amante e 4 figli illegittimi -, si abbandona ad un momento di passione col professore rimanendo incinta. Sarebbe un grosso guaio se il Capitano venisse a saperlo. Così Paolino per risolvere la questione, convoca l’amico medico Nino, interpretato da Enzo Campisi, che ha un fratello farmacista al quale chiedere qualche diavoleria afrodisiaca per fare in modo che Capitan Perella trascorra una notte d’amore con sua moglie.

Ma la questione viene affrontata con metafore ardite e la ripetizione di uno stesso concetto che assume ogni volta un significato nuovo fino a ridicolizzare il personaggio e a strappare una risata allo spettatore. Tra le citazioni non a caso del Mercante di Venezia shakesperiano e il “pensiero pensante” leopardiano – uno che di morale, penitenze e virtù se ne intende – la regia si concentra sulla triade: l’uomo/il Professore nel suo antropocentrismo, la bestia/Capitano emblema di una società patriarcale che “non ha cuore ma usa la logica”, la virtù/Signora Perella non nel senso insito in Nietzsche o in Platone, ma più nell’antico concetto greco di areté, di vigore morale e fisico. Tutte maschere, per tornare al concetto ben noto a Pirandello, non solo di una società meridionale e arcaica, rispecchiando invece, anche l’attuale condizione dell’uomo moderno. Anch’egli è maschera o leone da tastiera, che dir si voglia. Si cela oggi, dietro uno schermo e blatera, sentenzia. Qui entra in gioco il monologo di Magnato su chi è “ipocrita di professione” e non per farsa, interagendo col suo personaggio da una visione quasi esterna: “Io sono un uomo di coscienza”, dice. Ad interrompere questo “idillio” interviene Grazia (Annarita Mazzara), la domestica di casa Perella, come il bambino che punta il dito sull’Imperatore nudo, a fornire la sua visione amara delle cose, senza troppi giri di parole, e fino all’epilogo più comico, puntuale e senza lungaggini.

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