Medianeras

Vincenzo Figlioli

Medianeras

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mercoledì 15 Ottobre 2014 - 10:17

“Tutti gli edifici, assolutamente tutti, hanno una facciata inutile. Inservibile, che non dà né al fronte, né al fondo. La parete confinante (medianera). Superfici enormi che ci dividono e ci ricordano il passare del tempo e lo smog e la sporcizia della città. Le pareti confinanti mostrano il nostro lato più miserabile. Riflettono l’incostanza, le crepe, le soluzioni provvisorie. Sono la polvere che nascondiamo sotto il tappeto.”

Finalmente, dopo tre anni dall’uscita di questo gioiellino argentino, ecco che “Medianeras” approda in Italia, anche se in pochissime sale e con un sottotitolo acchiapparomantici: “Innamorarsi a Buenos Aires”.

Questo non è un film d’amore, come avvisava lo script iniziale di “500 giorni insieme”; anzi, è un film sull’alienazione, sulla solitudine che si prova circondati dalla gente nelle grandi città, sull’incapacità di vivere una vita reale quando internet ti fa restare comodamente a casa, su come le fobie e le nevrosi impediscano a due persone, come i nostri due protagonisti, di conoscersi…
Quindi, ignorate il sottotitolo e vedetelo anche se non siete romantici, soprattutto se non lo siete!
“Medianeras” è un film basato sull’omonimo cortometraggio del 2006, il regista Gustavo Taretto adatta la sceneggiatura per un lungometraggio, vincendo nel 2011 il Gramado Film Festival, come miglior regista e per il miglior film.
Il film si apre sugli edifici di Buenos Aires e paragona l’architettura varia ed eterogenea della città all’unicità e alla mancanza di pianificazione dell’uomo. A parlare è Martin, il protagonista maschile, che vive creando siti web e che ha come l’impressione di non alzarsi dal pc da dieci anni (a parte le due volte a settimana in cui si reca dal suo psichiatra).
Martin è “un fobico in via di guarigione” e per mettere piede fuori casa necessita del suo kit di sopravvivenza: uno zainetto in cui porta tutto ciò di cui pensa di aver bisogno e dal peso calcolato in base al suo.
Mariana, la nostra protagonista femminile, è un architetto che non ha mai costruito nulla, nemmeno un bagno, nemmeno una relazione… Allestisce vetrine e ne restaura i manichini, in compagnia dei quali si sente meno sola. La sua voce ci dà un altro punto di vista sull’architettura, la sua è una dichiarazione d’amore per un edificio in particolare: il grattacielo Kavanagh.
Martin e Mariana si alterneranno sullo schermo facendosi conoscere, ci affezioneremo a loro, ci riconosceremo in loro e, a tratti, potremmo detestarli, ma li accompagneremo fino alla fine, qualcuno con espressione scettica e qualcuno con un sorrisino ebete. (Io ero una di quelle con il sorriso ebete)
Ci vogliono ottime motivazioni per superare una fobia e quando ci si imbatte in numerosi fallimenti, la motivazione giusta la riconosci anche tra milioni di persone.
Il regista si diverte a farcire ogni scena con citazioni pop che spaziano da “Guerre stellari” a “Nightmare before Christmas”, giocheremo di nuovo a “Dov’è Wally?” e piangeremo riguardando “Manhattan”, nella sua semplicità aprirà cassetti della nostra memoria serrati da tempo.
Ma la forza di questa pellicola non sta tanto nella storia, che ad alcuni potrà sembrare banale in quanto quotidiana, ma nella capacità narrativa di Taretto che con la delicatezza della fotografia non ci fa sentire voyeur bensì partecipi; passando dal macro della città al micro dei protagonisti non ci sono forzature, l’occhio innocente con cui è stato girato diventa il nostro occhio innocente che assiste alla vicenda e tutto avviene naturalmente, come fermarsi a respirare, come fermarsi a guardare il cielo sopra una città affollata e accorgersi che la ragnatela di fili tessuta su di essa allontana e non unisce come ci avevano promesso.

 Daniela Casano

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