Mommy

Vincenzo Figlioli

Mommy

Condividi su:

venerdì 12 Dicembre 2014 - 11:30

La cosa peggiore per un ragazzo malato è fargli credere che tu o lui siate invincibili. L’amore non salva le persone, purtroppo.”
Tengo tanto a scrivere di questo film, ma soprattutto di questo giovanissimo regista.
Chi mi conosce (e mi ha sentito almeno una volta parlare dei suoi film) sa come mi si illumini lo sguardo al solo pronunciare il nome Xavier Dolan.
Xavier Dolan ha venticinque anni, è canadese ed ha all’attivo cinque film dove dimostra di avere talento da vendere; ma nel suo caso non è solo il talento a renderlo un grande regista, infatti a supportarlo c’è una grandissima sensibilità che gli permette di creare dei personaggi complessi e profondi. Dolan è un pugile che combatte in guanti di seta, i suoi film sono delle microstorie, fette di esistenze, episodi in cui, con grande maestria, inserisce i suoi protagonisti dagli animi caleidoscopici.
Mi colpì con “J’ai tué ma mère”, il suo primo film (viste le premesse, con un ristretto gruppo di amici, si decise di seguire questo “ragazzino”), me ne sono innamorata con “Les amours imaginaires”, “Laurence Anyways” è stata l’inevitabile conferma, alla visione di “Tom à la ferme” ero già cotta a puntino, ed ora “Mommy”, che finalmente mi ha permesso di poter vedere un suo film al cinema, mi ha lasciata senza parole.
Mommy”, vincitore, ex-equo con “Addio al linguaggio” di Godard, del Premio della Giuria a Cannes, ha la capacità di trasmutare in dramma tutto ciò che all’inizio del film riusciva a strapparti un sorriso; è la storia di una madre e di un figlio difficile, di un legame d’amore indissolubile e distruttivo che ci lega a doppio nodo ai protagonisti. L’intera pellicola, proprio come i suoi film precedenti, è costruita sulla puntuale caratterizzazione dei personaggi; come spettatori quasi non ci importa della vicenda, ci interessa solo vedere come reagiranno, cosa diranno, cosa si urleranno, come si odieranno amandosi (o come si ameranno odiandosi), come evolveranno loro, non i fatti.
E in questo gioco Dolan è abilissimo, ad ogni suo film in me ricorrono sempre le stesse domande: “Come fa a conoscere così bene l’animo umano in queste condizioni? Che sensibilità ha, vista anche la giovane età, per coglierne tutte queste sfumature senza ricorrere mai allo stereotipo? Come può ritrarre donne con così tanta disarmante fedeltà e profondità?”
Già, le donne di Dolan: forti, complesse, esauste, tenaci anche nelle insicurezze, nevrotiche… colorate e bellissime, di quella bellezza che sgorga fuori dagli occhi anche nelle condizioni peggiori, anche accucciate in mezzo ad una strada a recuperare scatolette e bottiglie perché il sacchetto della spesa si è rotto.
Tutto questo è Die, una grandissima Anne Dorval (attrice feticcio di Dolan), madre in difficoltà di un adolescente affetto da disturbo dell’attenzione, oppositivo e provocatorio. Die non è la migliore delle madri ma, a modo suo, ama suo figlio Steve ed è solo per amore che compie le sue scelte, criticabili, impopolari, ma sue…
Tutto questo è anche Kyla, una Suzanne Clément che convince ad ogni accenno di parola, vicina di casa e nuova amica dei protagonisti; la donna verrà risucchiata da Die e Steve, si sentirà viva con loro, accettata, e andrà da loro più spesso che può per non sentirsi la donna remissiva e balbuziente che invece è a casa sua, tra i suoi familiari.
E poi c’è Steve, un espressivissimo Antoine-Olivier Pilon, che ama sua madre ma che non può fare a meno di farle del male.
I protagonisti sono schiacciati dalle loro vite e noi li vediamo davvero compressi sullo schermo (come? Lo scoprirete!).
Ogni scelta è funzionale alla narrazione e mai superflua, la colonna sonora è perfetta come perfette sono le sequenze che accompagna, prima su tutte “Wonderwall” degli Oasis che non mi era mai sembrata così bella.
E poi c’è la speranza, quella cazzo di speranza… ti frega sempre quella!

Daniela Casano

Condividi su:

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Commenta