L’amarezza di Salvatore Mugno dopo la condanna per diffamazione: “Per me è impossibile accettare questa sentenza”

Vincenzo Figlioli

L’amarezza di Salvatore Mugno dopo la condanna per diffamazione: “Per me è impossibile accettare questa sentenza”

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domenica 09 Aprile 2017 - 07:30

Nei giorni scorsi il Tribunale di Trapani ha condannato per diffamazione lo scrittore Salvatore Mugno. Il processo trae origine dalla querela presentata nei suoi confronti dall’ex dirigente della Squadra Mobile di Trapani Giorgio Collura, che si è sentito diffamato da alcuni passaggi del libro “Una toga amara” e dall’omissione della sua assoluzione del 1991.

Mugno pubblicò quel libro 4 anni fa, ricostruendo la figura del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, ucciso dalla mafia il 25 gennaio del 1983.

Scrittore coraggioso e studioso accurato, in trent’anni di attività Salvatore Mugno ha dato alle stampe numerose pubblicazioni che non gli hanno portato la notorietà che avrebbe meritato, ma che tuttavia lo hanno accreditato come un punto di riferimento nel panorama culturale trapanese. Gran parte dei suoi sforzi si sono poi concentrati sullo studio del fenomeno mafioso, secondo una logica coerentemente antiretorica. Da qui i libri incentrati sulla figura di Matteo Messina Denaro (“Lettere a Svetonio” e “Matteo Messina Denaro. Un padrino del nostro tempo”), o quello dedicato agli anni trascorsi al Tribunale di Trapani da Giovanni Falcone (“Quando Falcone incontrò la mafia”). “Parole contro la mafia”, “Mauro è vivo” e “Mauro Rostagno Story”, sono invece stati acquisiti agli atti del processo di primo grado che ha condannato Vincenzo Virga e Vito Mazzara, accusati di essere il mandante e l’esecutore materiale dell’omicidio del sociologo piemontese. Nella sentenza, tra l’altro, il presidente Angelo Pellino si sofferma sul valore degli studi e degli approfondimenti curati sul caso da Mugno (che è anche un insegnante), definendolo “valoroso professore”. Elementi che però non sono stati presi in considerazione nel processo per cui è stato adesso condannato.

Cosa contesta, in particolare, l’ex capo della Squadra Mobile Collura della sua ricostruzione?

In sintesi, mi si contestano – credo, perché io non l’ho neppure ben capito – dei passaggi del libro contenenti semplicemente delle citazioni virgolettate di articoli di giornali, debitamente indicati nelle note a piè di pagina. Proprio così. Non delle mie opinioni o esternazioni.

E poi la omissione, nel libro, della assoluzione del dottor Collura del 1991. Nel libro è, comunque, indicato che al Collura era stata applicata, già in istruttoria, l’amnistia, nel 1988. Nel processo ho, poi, dimostrato che quella sentenza del 1991(pronunziata dalla Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Messina) non era mai uscita, fino alla querela nei miei confronti, nel 2013, dai cassetti dell’ex dirigente della Squadra Mobile e non era mai stata distribuita a giornali e giornalisti, non quando fu emessa e neppure dopo. E che perciò avevo ritenuto che la sua vicenda si fosse conclusa con quella amnistia, rispetto alla quale non era neppure stata mai annunciata una rinuncia.

Il processo è, peraltro, iniziato senza il corpo del reato, cioè il mio libro. Alla querela sono state allegare soltanto due o tre fotocopie, non l’intero libro. E così è cominciata la mia disavventura. Mentre nel libro ci sono diverse altre citazioni del Dottor Collura. Non mi sembra una cosa sensata, dopo tutto, se davvero si vuole cogliere il senso del libro e l’immagine complessiva del Collura, estrarne tre pagine. Soltanto la mia difesa ha prodotto una copia del libro, ma quando si era già davanti al Gup. Nelle poche pagine che sono state allegate alla querela ci sono delle citazioni di dichiarazioni dei giudici che allora si occupavano dell’omicidio Montalto, cioè Lo Curto e Patanè.

Di cosa parlano queste dichiarazioni?

Trattano delle indagini sull’omicidio del giudice Ciaccio Montalto, perciò in tema con l’oggetto del libro e di fonte autorevole. Nelle dichiarazioni di Patanè, che era il Procuratore capo della Repubblica del Tribunale di Caltanissetta, si fa riferimento anche al Collura. Credo siano queste le dichiarazioni che egli non ha gradito. Ma non mi sembra un valido motivo per una querela, né tanto meno per una condanna. Si può criticare il libro e dire che non piace, se si vuole, ma non censurare delle citazioni soltanto perché se ne ritiene il contenuto sgradevole o perché non lo si condivide. Esse sono, peraltro, dei tasselli di un racconto che si svolge nell’arco dell’intero volume.

Poi parlare di un libro all’interno un processo (a parte che il libro è arrivato ben in ritardo), è la cosa più assurda e inquietante che possa capitare: perché ciascuno legge e intende, le poche o tante cose che trasceglie, a modo proprio e secondo i propri scopi, senza riuscire davvero a confrontarsi e intendersi con gli altri. Una specie di babele. Alcune contestazioni nei miei confronti, poi, non trovano affatto corrispondenza nel libro. Ma qui sarebbe lungo da spiegare.

Quant’è difficile per un autore accurato come lei accettare una sentenza di questo genere?

Naturalmente io attendo di leggere le motivazioni della sentenza. Ma posso dire sin da ora che è impossibile, per me, accettare una sentenza come questa, perché in un paese civile – quale l’Italia non è forse del tutto – non si possono contestare delle citazioni di «articoli giornalistici di stampa pregressi», che il Dottor Collura, ha ritenuto, nel suo interrogatorio, essere «la cosa più grave» da me commessa.

E neppure si dovrebbe poter querelare e condannare per una omissione, una lacuna (peraltro dovuta, come dicevo, alla assoluta mancata diffusione della sentenza di assoluzione in questione), piuttosto che chiedere l’integrazione dei dati mancanti. Cosa che, peraltro, il sottoscritto, d’intesa col proprio editore, ha provveduto a fare spontaneamente, inserendo una nota integrativa nel sito dell’editore e un foglio all’interno del volume. In queste evenienze dovrebbe bastare una integrazione o una rettifica per chiudere il caso, anziché macchiare il lavoro – peraltro quasi sempre a titolo di puro e gratuito impegno culturale – e compromettere l’immagine delle rarissime persone che, soprattutto in Sicilia, si fanno carico di ricostruire certe storiacce.

Anche gli scrittori accurati possono compiere degli errori o incorrere, in buona fede, in sviste o lacune. Non per questo li si deve criminalizzare, processare e magari pesantemente condannare, come è accaduto a me. A meno che non si pensi che la nostra società non abbia più bisogno di essi. In ogni caso, vorrei precisare che tutte le cose riportate nel libro sono vere e documentate. Si può disquisire soltanto sul loro rilievo, sulla loro collocazione nel libro e sul loro contenuto (non costituito da mie opinioni, s’intende). Ma non mi sembra che la legge italiana vieti di citare degli articoli (peraltro di fonte autorevole, oltre che pertinenti al tema trattato) in un libro che ricostruisce vicende di oltre trent’anni fa. E non credo debba essere il giudice o il lettore scontento a decidere la strutturazione di un libro.

Questa sentenza avrà ripercussioni sulla sua attività di autore?

Se questa sentenza verrà confermata, negli stessi termini, nei successivi gradi di giudizio, medito seriamente di non occuparmi più di argomenti di questo tipo. Di storie di mafia, per intenderci. Lo stesso Parlamento non ha forse grande interesse a tutelare i giornalisti e gli scrittori italiani, visto che il nuovo testo sulla diffamazione in materia di stampa giace, per così dire, in discussione da quattro anni e sembra che tutti se ne siano dimenticati. Senza libertà e tutela di scrittori e giornalisti si va tutti a fondo, a mio avviso. Perché non possono esistere vere libertà individuali senza tutele collettive. Ho sacrificato troppo a questo impegno culturale e sociale. Non vorrei sopportarne conseguenze ancora più pesanti.

L’impressione è che, nonostante la stima di tanti, qualcuno in questi anni abbia cercato di isolarla nella sua attività.

Io non amo le apparizioni pubbliche. Non faccio parte di cordate e di associazioni. Non mi autoproclamo antimafioso. Non mi piacciono le folle e neppure gli applausi. Non sono un venditore di libri, neppure dei miei, che spesso neppure presento. Non cerco guadagni da questi miei lavori e il pane mi viene dal mio impiego. Non amo, insomma, la troppa pubblicità né, tanto meno, il presenzialismo. Ma, detto questo, poiché tanti qui si muovono in direzione opposta, altrettanti sono ben lieti di escluderti, ignorarti, oscurarti. Ma se fai delle cose utili, e magari belle, qualcuno, potrebbe anche accorgersene. E a volte accade. Io, vede, non intendo la mia attività letteraria come una carriera o una passerella sul tappeto rosso, ma come una passeggiata agli inferi.

Sette mesi fa le è stata bruciata la macchina. Un episodio inquietante di cui non si più saputo nulla…

Per sapere qualcosa forse bisognerebbe che qualcuno, non soltanto colui il quale è stato preso di mira, cioè io, fosse interessato a saperne di più. Poiché è stato ipotizzato, non soltanto da me, che l’incendio e la distruzione della mia auto potessero essere in connessione coi miei libri su vicende di mafia, le mie ricerche e anche con il mio contributo nel processo Rostagno, mi sarei aspettato che il desiderio di sapere cosa sia realmente successo fosse non solo mio. Ma pare che non sia così. Credo che molti abbiano dimenticato questo episodio. Indagavano, forse indagano ancora, i Carabinieri, che, come i Vigili del Fuoco, hanno accertato che si è trattato di un incendio doloso. Un bruttissimo incendio doloso, che poteva far esplodere il serbatoio del gas dell’auto e causare gravissimi danni a cose e persone. Il fuoco è, stato, infatti, appiccato alle due estremità dell’auto.

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