Vincenzo Figlioli

Marsala

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venerdì 02 Dicembre 2016 - 06:53

Come avevamo preannunciato nei giorni scorsi, anche il nostro giornale vuole dire la sua su questo referendum, andando al di là del racconto delle iniziative organizzate dai vari comitati o delle interviste ai principali sostenitori dei due schieramenti. Lo facciamo a ridosso della scadenza del 4 dicembre e in maniera insolita, perchè al nostro interno ci sono state e ci sono tuttora posizioni e letture diverse sulla riforma: non avrebbe senso negarle o cercare patetici compromessi per intonare un improbabile canto unitario. Per noi la diversità è ricchezza e il confronto è sempre un’occasione di crescita collettiva, al di là delle etichette politiche che il nostro giornale non intende comunque indossare. Abbiamo quindi condiviso l’idea di proporre oggi un doppio editoriale, in cui il sottoscritto spiega perchè domenica voterà Sì e il condirettore Gaspare De Blasi illustrerà le ragioni che lo inducono a votare No.

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Veniamo dunque alle mie personali valutazioni, maturate in questi mesi di letture e riflessioni sul referendum e sul testo della riforma. Partiamo da tre aspetti: non sono renziano, non ritengo che siamo di fronte alla migliore delle riforme possibili e non considero superata la Costituzione vigente. Aggiungo che il Presidente del Consiglio ha clamorosamente sbagliato nel personalizzare una consultazione referendaria che mai si sarebbe dovuta trasformare in uno scontro tra i suoi sostenitori e i suoi avversari. Le prossime settimane ci diranno se si è trattato di semplice avventatezza o se dietro c’era una lucida strategia volta, magari, a determinare effetti che al momento non siamo in grado di prevedere.

Ad ogni modo, voterò Sì perchè ritengo che il contesto in cui viviamo sia sensibilmente diverso rispetto a quello in cui l’Assemblea Costituente approvò la Carta Costituzionale entrata in vigore il 1 gennaio del 1948 e i cui primi 54 articoli continuano a rappresentare un formidabile libretto di istruzioni da leggere e rileggere per trovare le risposte alle domande che ogni giorno ci facciamo sull’accesso al mondo del lavoro, l’uguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge, la libertà di pensiero e di religione, l’accoglienza ai migranti, la risoluzione delle controversie internazionali, la funzione sociale dell’impresa privata, l’interesse generale che dovrebbe accompagnare l’esercizio del diritto di proprietà, i doveri dei genitori nei confronti dei figli, il dovere dei nostri amministratori di adempiere le funzioni pubbliche per cui sono stati eletti “con disciplina e onore”.

Formidabile fu, in linea teorica, anche il sistema di pesi e contrappesi previsto dai costituenti per dar forza alla rappresentanza dei cittadini in Parlamento dopo 20 anni di dittatura fascista e per cominciare a mettere in pratica un’idea di democrazia che era ancora tutta da costruire in Italia. Tuttavia, come molti temevano già in fase costituente, le buone intenzioni si sono presto scontrate con i “machiavellismi” di chi ha utilizzato ogni mezzo per rallentare il processo di attuazione della Costituzione italiana. Paradossalmente, una delle Carte costituzionali più aperte ai principi democratici dell’egualitarismo si è trasformata in uno strumento agitato più volte a proprio vantaggio dalle lobbies della conservazione, limitando la capacità di incidere delle masse popolari e delle nuove generazioni, le cui istanze di cambiamento hanno trovato spazio sempre con grande fatica, segnando spesso una divaricazione netta tra Paese reale e Paese legale.

Da oltre 30 anni si ragiona dunque su riforme che possano riequilibrare il sistema rafforzando il ruolo dell’esecutivo, puntando costantemente sul superamento del bicameralismo paritario per velocizzare il processo di approvazione delle leggi. In fondo, questo modello è stato seguito anche sul fronte delle amministrazioni locali, che con l’approvazione della legge 140/92 hanno visto crescere i poteri dei sindaci a discapito dei Consigli comunali, con risultati amministrativi generalmente positivi, che non hanno minimamente intaccato i principi cardine della democrazia. Le difficoltà riscontrate nel raggiungimento di quest’obiettivo sul fronte nazionale hanno portato i governi ad abusare del ricorso alla decretazione d’urgenza, dando discutibilmente in pasto all’opinione pubblica provvedimenti centrati più sulla logica dell’emergenza che su un progetto legislativo organico e coerente. E’ vero, gli autori della nuova riforma hanno previsto diverse materie in cui il Senato può comunque esercitare la funzione legislativa. Forse è mancato il coraggio di andare fino in fondo, o più probabilmente si è voluto dare un contentino ad alcune componenti critiche. Tuttavia, escludendo qualche rischio connesso al conflitto di attribuzioni tra le due Camere, la proposta nel suo complesso può comunque portare sensibili benefici al processo legislativo.

Indubbiamente positiva la riduzione del numero dei parlamentari: anche qui, con un po’ di coraggio in più, si sarebbe potuto allargare l’intervento anche alla Camera dei Deputati, che continuerà ad essere composta da 630 componenti. Ma è innegabile che il taglio sui senatori sia comunque un segnale di buon senso, se consideriamo che a fronte dei 945 parlamentari eletti che attualmente ha l’Italia, la Germania ne ha 631, la Russia 620, la Spagna 614 (per non dire della Grecia che ne ha 300 o del Portogallo che ne ha 230).

Dovessero vincere i sì, mi auguro sinceramente che si riesca a trovare un modo per rendere quanto più democratica possibile l’elezione dei senatori, su cui per il momento continuano ad esserci incertezze, tra ipotesi di nomine dirette da parte dei consigli regionali e proposte di buon senso, come quella presentata da Vannino Chiti e Federico Fornaro, che prevede l’introduzione di una doppia scheda alle elezioni regionali, in modo da consentire ai cittadini di votare anche per il senatore che dovrebbe rappresentare il proprio territorio a Palazzo Madama.

La vera battaglia per la rappresentanza, però, andava e va ancora fatta sulle preferenze. Non ricordiamo barricate o sommosse di piazza da parte dei partiti dell’arco costituzionale quando il centrodestra di Berlusconi approvò il “Porcellum” a colpi di maggioranza. Una legge elettorale che imponendo le liste bloccate ha davvero limitato per un decennio la possibilità dei cittadini di eleggere i propri rappresentanti nei due rami del Parlamento. Sostenendo la proposta Chiti/Fornaro per il Senato e ragionando su una revisione dell’ “Italicum” si potrebbe dunque rimediare all’eventuale vulnus che si creerebbe sulla designazione dei senatori, nel caso in cui la riforma venisse approvata dal corpo elettorale.

Sull’abrogazione del Cnel e delle Province, pochi dubbi: il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro si è rivelato inutile e costoso, nonostante i decisi tagli già operati negli ultimi anni. Le Province, nelle idee dei costituenti, sarebbero dovute restare in piedi fino al completamento del processo legislativo che portò alla nascita delle Regioni ordinarie, compiutosi nel 1970. Di fatto, vengono cancellate con 46 anni di ritardo…

Nessun dubbio, poi, sulle modifiche al Titolo V, riguardante il rapporto tra Stato e Regioni: lo spirito federalista introdotto con eccessivo impeto nel 2001 per togliere argomenti alla propaganda della Lega Nord ha portato alla deflagrazione di ripetuti conflitti di attribuzioni che hanno ulteriormente rallentato l’attività amministrativa. Su materie come finanza pubblica, ambiente, paesaggio, infrastrutture, edilizia e urbanistica si conta, in media, un contenzioso ogni tre giorni davanti alla Consulta. L’eliminazione del principio della “competenza concorrente” dovrebbe risolvere il problema. Appare utile anche l’introduzione del “regionalismo differenziato”, che intende premiare – dando maggiore libertà d’azione – le Regioni che più virtuose nella gestione della spesa pubblica.

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A questo punto, non ci resta che attendere l’esito del referendum di domenica sera. L’auspicio, comunque finisca, è che il Paese possa tornare ad avere la capacità di disegnare il suo futuro secondo una logica “illuminata”, che non guardi tanto al presente o alle prossime elezioni politiche, ma al futuro delle generazioni che verranno. Se vince il Sì, l’augurio è che il confronto tra le parti possa avvenire secondo una logica più serena ed equilibrata, procedendo nella maniera migliore possibile all’attuazione della riforma. Dovesse vincere il No, sarebbe chiaro che la classe dirigente italiana non è in grado di autoriformarsi. A quel punto, sarebbe doveroso tornare a pensare a una nuova Assemblea Costituente, capace di dare all’Italia gli strumenti adeguati per uscire dalla palude in cui si trova bloccata da decenni, bruciando potenzialità e occasioni che in altri Paesi sarebbero state utilizzate in ben altra maniera.

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