Una pittura irrequieta

redazione

Una pittura irrequieta

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giovedì 07 Settembre 2017 - 17:52

Con una tavolozza di pochi colori, tenui e disadorni, la pittura di Alberto Gianquinto riesce a sedurre anche l’occhio acerbo del visitatore al Convento del Carmine, che ospita una sua raccolta di dipinti. Compito non facile per gli organizzatori dell’Ente Mostra di Pittura Contemporanea Città di Marsala la messa a punto dell’evento considerata, oltre la notorietà dell’omaggiato, la vastità della sua produzione dove ogni manufatto apre prospettive nuove nella variazione della materia. Nonostante la parsimonia di mezzi, parallela ai segni del pennello, tanto poveri quanto allusivi, un abile contrasto cromatico garantisce temperati luminismi, mai azzardati liberando, parimenti, ricche ed intense accensioni emotive. Ma, davvero questo limpido ed originale esercizio tecnico si concentra al solo piacere visivo? Oppure sono proprio queste particolari luci, puramente mentali, a delineare la forma di un disagio in opposizione alle tendenze provenienti dal Nuovo Mondo che dal dopoguerra influenzano, fino a minacciare, il complesso stesso della pittura? Si pensi al disegno, un tempo radice del dipingere ora memoria sbiadita.

Così, da un immaginario a forte sollecitazione sociale, il dipinto “Verso Asolo”, nel ribadire la naturale errante del pittore, sembra indicare l’arduo cammino che si compie, col proprio impegno, per attenuare la morsa di iniquità e abbruttimenti che ci assediano. Nelle sagome sghembe, dimesse, di “povertà” francescana, avviene il passaggio dall’io al noi, in assenza di ambiguità. Un’immagine-simbolo che anticipa gli effetti del degrado materiale e dello sfascio delle regole civili più elementari, mentre la fede nel profitto resta l’unica religione in corso. Risulta attuale, tale da non disperdere l’essenza delle cose, l’elaborato sul tema antico della “Crocifissione”: le tenebre, i legni rinsecchiti, il chiodo, gli stracci al vento narrano. Sono Storia. Se da questa si passa alla favola, ci si chiede: da quale bizzarra fonte di creazione ha saputo modernizzare, con rapide ma calcolate scansioni cromatiche, il mito del buon pastore “Endimione”? E la levità dei segni come viene suggestivamente esaltata dal nitore del Plenilunio”! Quando l’Arte è contemplazione… Indifferente alle mode e alle bugie del mercato, Gianquinto ignorò furbesche scorciatoie, nel perfezionamento di una ricerca che nulla concesse al superfluo.

Ebbe il merito di armonizzare luce segno e volume, legando l’atto di dipingere non alla fedeltà della realtà – per questo scopo esistono altri mezzi – ma alla sua trasformazione, alla necessità di andare oltre l’esistente secondo visioni e modi di pensare tipici di una persona libera. In fuga dal casuale come dal ridondante, amò frequentare sommessi spazi interiori e da lì governare quei fasci di luce e frammenti ideali che continuano a sorprendere perché ci aiutano a pensare. Né si può attribuirgli un’anagrafe professionale se da arguto operaio della pittura fu in possesso di forti ma aperte riflessioni che lo immunizzarono dagli schemi. In questa autonoma e laboriosa ricerca di sé, in rapporto vuoi al sapere fare buona pittura vuoi a vivere in società, la memoria incrocia senza forzature l’insegnamento, non solo artistico, di Giorgio Morandi. Chiaramente differisce l’aspetto estetico-formale, tuttavia la tensione morale e l’opposizione culturale contro i perversi assetti di poteri, prima palesemente spietati poi opportunamente mascherati, sono affini. Se la Bellezza fa la spola inesausta tra cuore e cervello, si ritornerà al Convento del Carmine, come si rilegge un libro dove è la parola a piegarsi ai fatti, per continuare a pensare con la lingua soavemente lirica di Gianquinto.

Peppe Sciabica

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