L’ennesimo scisma

Vincenzo Figlioli

Marsala

L’ennesimo scisma

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giovedì 19 Settembre 2019 - 06:45

“Scissione” è una parola particolarmente ricorrente nella storia della sinistra italiana, dal congresso di Livorno ai giorni nostri. Elencare uno per uno i vari episodi che si sono verificati nel corso di un secolo, sarebbe un esercizio ozioso e, tutto sommato fine a se stesso. Così come appaiono un po’ forzati i parallelismi tra la scissione consumata fra socialisti e comunisti alla vigilia della Marcia su Roma e la rottura di questi giorni fra Renzi e il Pd. Tuttavia, la sensazione è che per l’ennesima volta i rancori personali tra i dirigenti abbiano prevalso sulle richieste di unità degli elettori.

Dal ’94 in poi, abbiamo assistito in sequenza all’accantonamento di Achille Occhetto, alla caduta di due governi guidati da Romano Prodi (cui furono anche fatti mancare i voti per l’elezione al Quirinale), all’ascesa e al successivo accantonamento di D’Alema, Veltroni, Rutelli, Fassino, ma anche di Bertinotti e Vendola, senza dimenticare la vergognosa congiura di palazzo ordinata contro l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino. Renzi si prese la scena promettendo di rottamare quella classe dirigente che tanti dispiaceri aveva regalato ai propri elettori, infrangendo il proprio disegno politico il 4 dicembre del 2016, con la vittoria del “no” al referendum costituzionale. Da lì in poi, il “cigno di Rignano” non ne ha più beccata una, se si eccettua l’apertura al governo giallorosso di un mese fa. Si fosse circondato di consiglieri migliori, probabilmente la sua carriera politica avrebbe avuto esiti diversi. Allo stato attuale, il suo impetuoso passaggio nella storia della sinistra italiana appare l’ennesima occasione di rinnovamento sprecata.

D’altra parte, esaurito lo tsunami Renzi, il Pd di Zingaretti somiglia molto al partito che fino al 2013 si era fondato sull’equilibrio tra ex Ds ed ex Margherita o, per dirla in maniera più chiara, tra Bersani e Franceschini: un partito a trazione emiliana, che univa la tradizione del cattolicesimo sociale con quella della socialdemocrazia italiana. Se, dunque, la sinistra intende ripartire da lì e da quei dirigenti locali che (specie al Sud) si sono spesso comportati da bulletti di periferia, alimentando rendite di posizione personali e familiari a discapito di qualsiasi istanza di cambiamento, Nicola Zingaretti finirà per traghettare il Pd verso una lenta implosione. Se, invece, dimostrerà di aver imparato la lezione e di voler tornare ad essere un partito aperto e plurale, capace di ascoltare gli studenti che lasciano l’Italia, i lavoratori senza tutele, i disoccupati, le aziende sull’orlo del fallimento, gli emarginati, i cittadini senza voce e senza diritti, allora potrebbe davvero ricucire un rapporto di fiducia con il Paese e riaccreditarsi come una forza politica capace di leggere il proprio tempo, di interpretarne i cambiamenti e di indicare modelli culturali alternativi alla retorica sovranista.

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